Prima di Sonido Classics avevo realizzato quest’intervista con Valerio Ciriaci, regista italiano attivo a New York, in merito al documentario If Only I Were that Warrior, proiettato a dicembre a Zona K a Milano. Il film è stato realizzato dalla casa di produzione indipendente Awen Films, con la fotografia di Isaak Liptzin, il montaggio di Giovanni Pompetti, la musica di Francesco Venturi e il sound design di Luigi Porto.

If Only I Were that Warrior tratta delle proteste scatenatesi nel 2012 in seguito alla realizzazione di un monumento dedicato a Rodolfo Graziani ad Affile, il paesino del Lazio dove nacque e dove tornò a insegnare in seguito ai soli quattro mesi di carcere scontati dopo la Seconda Guerra Mondiale (condonati dai 19 anni di pena ai quali fu inizialmente condannato per collaborazionismo). Eventi storici troppo spesso trascurati dall’opinione pubblica, dai media e dalla scuola italiana, sono riportati dal documentario attraverso testimonianze di vecchie e nuove generazioni di etiopi e di italiani (ma anche etiopi/italoamericani e italoetipi).

L’uomo a cui è stato dedicato il monumento tutt’ora presente ad Affile è stato generale durante l’occupazione dell’Etiopia del 1935, primo viceré della colonia e in seguito comandante in capo durante la repubblica di Salò. A parte le rappresaglie e le fucilazioni dei renitenti alla leva durante gli anni della RSI, Graziani non fu mai processato per l’uso di armi chimiche né per gli eccidi della popolazione civile Etiope o tantomeno per le rappresaglie sui partigiani libici.

Già, perché anche se If Only I Were that Warrior è focalizzato sull’Etiopia, in questi giorni caratterizzati da venti guerrafondai cogliamo l’occasione per sottolineare che Graziani fu anche governatore della Cirenaica durante la Guerra (aka invasione) della Libia del 1930.

If Only I Were that Warrior è stato possibile anche grazie ad un finanziamento collettivo, che tipo di risposta avete riscontrato con la pagina su Kickstarter? Qual è stata invece la reazione di sostenitori più istituzionali?

La campagna Kickstarter è stata fondamentale, senza questa raccolta fondi non avremmo neanche iniziato le riprese. La risposta è stata estremamente positiva, soprattutto qui in America. L’aiuto più grande l’abbiamo ricevuto dalla comunità etiope qui in USA, mobilitatasi da subito contro il monumento a Graziani. Inoltre, garantendoci i fondi per viaggiare in Etiopia e in Italia, la campagna ci ha permesso di rimanere indipendenti e realizzare il film in piena autonomia. Era una cosa a cui tenevo molto visto l’argomento trattato nel documentario. In Italia, aldilà dell’Archivio Centrale dello Stato che ci ha aiutato concretamente con il materiale d’archivio, il film non ha avuto molti sponsor istituzionali. Richiedere finanziamenti pubblici è già qualcosa di particolarmente complicato e, probabilmente, il fatto che non vivo più in Italia non ha aiutato. Tuttavia, dopo l’anteprima al Festival dei Popoli di Firenze, le cose stanno cambiando: con il premio “Imperdibili” la Fondazione Sistema Toscana ci darà la possibilità di distribuire il film nelle sale d’essai in Toscana e, più in generale, questo riconoscimento ha attirato l’attenzione di vari enti e istituzioni che si sono dette interessate a organizzare proiezioni del documentario in tutta Italia.

Il documentario è stato mostrato durante una serie di proiezioni, festival e sedi diversi negli ultimi mesi, tra gli ultimi l’African Diaspora Film Festival di New York. Come sono andate e cosa ti è rimasto dopo questa successione di incontri?

Abbiamo cominciato al Festival dei Popoli di Firenze il 28 Novembre e proseguito in Italia con proiezioni a Milano, a Como e a Roma organizzate dall’ANPI. Negli Stati Uniti If Only I Were That Warrior è stato presentato in anteprima all’African Diaspora Film Festival di New York e nelle prossime settimane lo porteremo anche a Washington DC e a Missoula (MO) per il Big Sky Documentary Film Festival. Tutte le proiezioni realizzate fino a ora sono andate molto bene. Quello che mi ha colpito di più è stata la grande risposta e partecipazione del pubblico. Dopo ogni proiezione sono sempre nati dibattiti lunghi e molto animati che spesso duravano più del film e proseguivano al di fuori della sala quando, per forza di cose, gli esercenti dovevano farci uscire per chiudere il locale.

Che idea avevano del colonialismo italiano le persone in sala? In contesti del genere un film su questo argomento non rischiava di “predicare per i già convertiti”?

Come dici anche tu, dipende dai contesti. Alla proiezione di New York, per esempio, erano presenti in sala molti etiopi che certamente quel periodo e i crimini di Graziani se li ricordano molto bene. Ma ci sono stati altri eventi dove abbiamo visto gente sorpresa, che non aveva mai sentito parlare dei massacri di Addis Abeba e Debre Libanos. Nelle scuole dell’obbligo questo capitolo della nostra Storia nazionale è rilegato a una semplice paginetta e spesso degli eccidi non c’è traccia. Quindi tra il pubblico italiano c’era anche chi era venuto proprio perché interessato a saperne di più.

Credi che potrà raggiungere un pubblico di massa oltre a quello dei festival? Penso ad una messa in onda televisiva, ma anche arrivare a proiettarlo nelle scuole sarebbe importante.

Mi auguro di sì. In realtà con scuole e università abbiamo avviato contatti già da tempo. Sono stati tanti i professori e gli studenti che ci hanno scritto e invitato a presentare il film nelle loro classi. Cominceremo qui a New York, il prossimo 2 Febbraio, alla Scuola d’Italia e proseguiremo durante tutto il 2016 con altre proiezioni qui negli Stati Uniti e anche in Europa.

La storia è stata ricostruita attraverso una molteplicità di fonti e materiali, tra quelli d’archivio mi sembra che le foto d’epoca animate in motion graphic abbiano preso il posto dei filmati tipo Istituto Luce. Come mai questa scelta?

Esattamente, il materiale d’archivio presente nel film è unicamente fotografico e proviene per la maggior parte dall’Archivio Centrale dello Stato, e precisamente dal Fondo Graziani che è conservato lì. Mi piaceva l’idea di utilizzare un materiale d’archivio stilisticamente coerente con la fotografia del documentario, quindi con pochi movimenti di macchina e shot lunghi, pieni di elementi e layers che si colgono gradualmente. Per questo la scelta è ricaduta sulle fotografie d’epoca, di gran lunga superiori in qualità ai video dell’Istituto Luce, che possono essere riprodotte in alta risoluzione. In fase di post-produzione, questo ci ha permesso di applicare una leggera animazione alle immagini e simulare così un effetto 3D. In questo modo, la fotografia prende vita e immerge lo spettatore nel racconto storico.

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Altri eccidi ordinati da Graziani come la strage di indovini, cantastorie ed artisti di strada forse sono difficili da raccontare attraverso questo medium o è ormai impossibile trovare testimoni. Vedendo il video si ha l’idea di una mole considerevole di materiali e testimonianze raccolti, da cui hai scelto di raccontare in particolare la storia di Debre Libanos.

Consideri gli altri materiali definitivamente scartati oppure credi che ci possano essere occasioni future di condivisione e di archivio?

Durante i due anni di riprese, abbiamo raccolto più di 100 ore di girato. Quindi siamo stati costretti a tagliare 99 ore, comprese molte interviste, storie e materiale d’archivio. Mi piacerebbe molto estendere il film e magari trasformarlo in un web-documentary interattivo che raccolga anche testi, mappe e fotografie. Purtroppo aprire un sito del genere richiede una spesa importante e non ti nascondo che è già stata un’impresa finanziare un film indipendente di 72 minuti. Ora che il documentario è uscito e sta riscuotendo un certo interesse, proverò nuovamente a proporre l’idea, sperando di poter utilizzare tutto quel materiale che, per motivi di durata, è rimasto fuori dal final-cut.

Il colonialismo sembra quasi scomparso anche dalla memoria partigiana delle commemorazioni del 25 aprile. A Milano lo scorso anno, durante la parata per il settantesimo anniversario della Liberazione, solo un piccolo gruppo di rastafariani italiani distribuiva volantini che ricordassero che in quel giorno si ricordava anche la fine dell’oppressione militare italiana in Etiopia.

In una scena del documentario c’è stata effettivamente una connessione tra la festa della liberazione e gli eccidi sia in Etiopia che in Italia. È stato “merito” del monumento?

Credo proprio di sì. Paradossalmente per chi l’ha costruito, il monumento ha riportato il tema del colonialismo italiano e dei sui crimini sulle prime pagine dei giornali e nel discorso pubblico. Ricordo che il 25 Aprile 2013, pochi mesi dopo l’erezione del monumento, molti partirono da Roma per commemorare questa data proprio lì ad Affile, rispondendo così a quello che veniva considerato un attacco alla Costituzione Italiana e ai suoi valori antifascisti. Questo collegamento è molto forte nel film, anche perché purtroppo alla lotta di liberazione non seguì mai una chiara e inequivoca condanna dei crimini fascisti, in particolare di quelli commessi in Etiopia. Graziani, per esempio, non venne mai processato per quanto accaduto durante l’occupazione e fece solo pochi mesi di carcere.

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Guardando If Only I Were that Warrior mi sono chiesta se fosse necessario un punto di vista da oltreoceano per andare oltre lo scontro tra diverse versioni della storia (il mito assolutorio versus l’accertamento di colpevoli, vittime e testimonianze) e arrivare a qualcosa di propositivo.

Quanto ha contato fare questo documentario da italiano che vive negli Stati Uniti?

Non saprei dirti con esattezza quanto ha contato, ma di certo qui negli Stati Uniti c’è molta attenzione nei riguardi degli studi post-coloniali e dei civil rights. L’idea di realizzare il film è nata infatti dopo aver assistito a un panel universitario a cui erano presenti molti membri della comunità etiopica. Nonostante le tensioni razziali che ancora esistono, la società americana è incredibilmente multi-etnica e, soprattutto qui a New York, l’interazione con altre culture è all’ordine del giorno. Forse, a livello personale, questo ha contribuito nella misura in cui ho coltivato un po’ di distacco e ho cominciato a farmi delle domande che inizialmente sembravano scontate, ma che in realtà non lo erano affatto. Quella che ha dato il via al film è stata: “Come è possibile che in uno Stato che per Costituzione condanna il fascismo si possa costruire un monumento come quello di Graziani ad Affile?”

Uno dei soggetti ripresi si chiede esplicitamente “What can we do about it?” e nonostante fosse pronunciata con un senso di fatalismo la domanda suona involontariamente come una chiamata all’azione.

Il documentario stesso oltre che le posizioni di Kidane Alemayehu e Nicola DeMarco sono già una parziale risposta, ma vorrei chiedertelo esplicitamente, cosa si può fare? Hai consigli per chi vorrebbe trattare questi temi?

La nostalgia colonialista e l’esotismo più o meno involontario sono sempre dietro l’angolo.

Si può fare molto. Il passato coloniale italiano, quando non è ignorato, è spesso oggetto di mitizzazione e revisionismo. Bisognerebbe attualizzare questa Storia e suscitare interesse anche in chi non si sente toccato da questi eventi. Le ripercussioni di quanto successo ottanta anni fa si vedono tutt’oggi e il monumento a Graziani ne è una chiara dimostrazione. If Only I Were That Warrior è solo un piccolo contributo, bisogna portare il tema nelle scuole e aprire un dialogo che finora abbiamo sempre evitato.

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