Riprendo e condivido un importante articolo di Giap/Wu Ming pubblicato poco più di un mese fa e intitolato Rasta Notes. Rivelazione, rivoluzione e reggae.
Oltre alla rilevanza delle riflessioni — un contributo essenziale sulle sottoculture reggae/dub e sul Rastafarianesimo a partire da un punto di vista italico — l’articolo esce in concomitanza con i pensieri e il work in progress su Negus, un’opera che sto portando avanti con Invernomuto e che esplora la figura dell’ultimo Imperatore d’Etiopia rifacendosi alla tradizione giamaicana del versioning. Rimando alla campagna di crowdfunding, già segnalata su questo blog, per approfondimenti.Sono nato nei primi anni ’80 e a Bologna non c’ero, quindi leggo e percepisco questo testo come un reportage, da outsider; non ho mai militato nelle scene reggae italiane in giovane età, perchè appunto – come dice Wu Ming – “Bob Marley, da noi, lo ascoltavano i fricchettoni.” Solo negli ultimi anni ho iniziato ad acquistare dischi dub e dancehall e a suonarli, ma soprattutto ad approfondire la storia e cultura dei soundsystem e gli immaginari ad essa connessi, a tal riguardo, mi permetto di segnalare un testo fondamentale: Normann C. Stolzoff, Wake the Town and Tell the People: Dancehall Culture in Jamaica.

Voglio sottolineare il paradosso di questa frase: “Una riflessione sul Rastafarianesimo invece oggi è importante per chi è deciso ad affrontare nodi irrisolti e intricati come il “nostro” passato coloniale.” — chiarendo che il nostro lavoro Negus è mosso dalla medesima volontà, dalla bieca triangolazione che accomuna Italia (e in particolare il nostro paese natìo Vernasca), Etiopia e Giamaica.

Questo post ha anche valore propiziatorio: oggi è il settantasettesimo compleanno di Lee “Scratch” Perry, e domani lo festeggeremo a Vernasca. You can’t hide from Jah.
Buona lettura.


Il reggae, il suono e il senso della musica, è stato uno degli elementi che hanno tenuto lontano molti skinheads della prima ora, a metà degli anni ’80, dalle derive che hanno colpito e segnato lo stile all’interno del quale ho vissuto molti anni. Il Reggae diceva senza mezzi termini che il sistema è sbagliato, al punto da essere perverso e mostruoso. Lo faceva utilizzando chiavi retoriche e soluzioni apparentemente lontane da quelle del punk, la musica che avevamo amato e amavamo e da cui provenivamo. Il reggae dava apertura, intelligenza, conoscenza di problemi come il razzismo, l’organizzazione gerarchica basata sulle gradazioni di colore della pelle che è implicita nell’attuale “equlibrio mondiale”, e questo, per una fazione all’epoca impantanata nella prospettiva della gang di strada, era un modo per non finire fottuti fino in fondo.
Il rapporto tra punk inglese e reggae è noto ed è stato narrato nel dettaglio.
Mancano invece testimonianze di questo rapporto per quanto riguarda il punk italiano, e più in particolare quello bolognese.
L’81-’82, da noi – gli anni finali della fase di passaggio che porterá ai “veri” anni Ottanta – erano per lo più l’epoca dei Crass, dei Discharge, o forse per i più attenti dei Black Flag e dei Circle Jerks, il tempo del punk anarchico e del primo hardcore americano. A Bologna alcuni il reggae lo ascoltavano di già, ed erano quelli che avevano apprezzato lo ska revival di fine ’70, i Madness, gli Specials. Ma non solo.
Nell’estate del 1982 avevo appena comprato i miei primi dischi giamaicani: Burning Spear, Mighty Diamonds, Showcase dei Black Uhuru, forse il loro lavoro migliore, una semplice raccolta di singoli. Quella musica teneva in piedi, dava calore e coraggio.
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Quella era anche l’estate dove i primi skinheads bolognesi, quelli della primissima ora, i pionieri, facevano la loro apparizione sulla scena cittadina. Non era un caso, diceva Helena, che tra le musiche di elezione degli skinheads ci fosse proprio il reggae, date le connotazioni che politicamente ritenevamo conservatrici. Ci sfuggiva completamente tutta la tematica anticoloniale, ad esempio, e ritenevamo assurdo che si potesse credere in un dio che è un uomo ed è anche un re, anzi, il Re dei Re. Ignoravamo tutto della situazione politica giamaicana e africana. Poi c’era la questione stilistica: Bob Marley, da noi, lo ascoltavano i fricchettoni.
Le antenne erano ben dritte, in quella fazione minoritaria di inizio anni ottanta. Sentivamo. Presagivamo. Lottavamo. Si era lontani dall’oggi. Fin da allora ritenevamo, io lo ritengo ancora, che nel reggae si nasconda, o meglio si palesi, un punto cruciale. Per ragioni inerenti alla mia storia personale e al mio campo di interessi originario, ho creduto che il punto avesse a che fare con il rapporto tra reggae e sottoculture così dette giovanili, come i punk e gli skinheads. Oggi credo che ci sia un aspetto più centrale, ed è contenuto nel rapporto tra situazione politica, sociale ed economica mondiale e l’esistenza di una forza ideologica che si esprime in modo, appunto, politico e religioso attraverso le dottrine e lo stile di vita rastafari, e di cui il reggae costituisce un lungo commentario che si è espresso con continuità e sorprendente ricchezza nell’arco degli ultimi cinque decenni. Il reggae, in altri termini, è importante, necessario per capire le tensioni che lavorano nel presente, che hanno spesso radici lontanissime, a prescindere da ciò che ne hanno fatto i ragazzi bianchi adottandolo e adattandolo ai loro stili.
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Una riflessione sul Rastafarianesimo invece oggi è importante per chi è deciso ad affrontare nodi irrisolti e intricati come il “nostro” passato coloniale. Il caso vuole che si sia nati o almeno cresciuti qui, proprio nel paese che tentò fuori tempo massimo una assurda avventura imperiale ai danni del popolo governato della persona che per i rasta rappresenta la pienezza della divinità, l’uomo vivente che era sul trono d’Etiopia nel 1936, cioè Hailé Selassié I, noto prima dell’incoranazione come Ras Tafari Makonnen.
Per sgombrare il campo dagli equivoci, occorre dire che moltissimi rasta non accettano il termine “religione” per quanto riguarda il loro sistema di valori e credenze e il loro stile di vita. No isim no schism, né “ismo” né scisma: non c’è un’ortodossia, anche i tratti che vengono associati comunemente alla fede Rasta – l’uso sacramentale e meditativo della ganja, i dreadlocks, la divinità di Hailé Selassié – non costituiscono presupposti per un dogma. Si può essere Rasta, a quanto pare, senza fumare marijuana, senza portare i dread e senza credere in senso stretto alla divinità del Leone di Giuda, Re dei Re, Ras Tafari Makonnen. Ma c’è indubbiamente una riflessione di natura religiosa e una posizione teologica e cristologica alla base del modo rastafariano di intendere e condurre l’esistenza.
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We all know and we understand Almighty God is a living Man. Questo è portare lo scandalo dell’incarnazione al livello più alto. Per depotenziare il fatto che dio è un uomo, che la pienezza del divino è in un corpo, si è dovuti allontanarlo in regioni metafisiche, in modo da avere una chiesa di esperti che fungesse da intermediaria e da interprete, esegeta e garante della sua parola. Un dispositivo pronto per funzionare da motore ideologico della prevalenza, della violenza dei grandi a danno dei piccoli. Una chiesa che garantisce il dominio del ricco sul povero, in altri termini. Che quindi pospone il giudizio. Nessun ricco entrerà nel Regno dei Cieli, certo. Ma nell’intrepretazione corrente, il Regno dei Cieli non è qui, non è ora. Per un mistico magari, per un contemplativo sì. Ma per chi soffre e muore tutti i giorni fin dalla cacciata dall’Eden, per tutti noi, per la generalità degli uomini e delle donne? Una religione beffarda che sta coi poveri e però allontana indefinitamente il giorno della resa dei conti. Che sta con i poveri, nel senso perverso che la continuazione indefinita della povertà, della mancanza, è condizione stessa della sua esistenza come centro spirituale di una macchina di dominio.
Questa è la radice profonda dell’avversione dei Rasta nei confronti della chiesa di Roma. Quando morì papa Paolo VI, in un’epoca in cui il reggae esprimeva pienamente la sua vocazione militante, comparvero brani con testi celebrativi, come Pope Paul Dead and Gone (Trinity), o Fire fe de Vatican (Max Romeo)…

Qui la versione integrale e i commenti.