Avevo già scritto qualcosa in merito ai Die Antwoord in un altro post, ma in questo caso servono per tentare una precisazione riguardo al mio approccio agli argomenti trattati da questo blog. Il rapporto causa-effetto tra stranezza e interesse è una questione a cui ho pensato spesso prima e dopo aver avvicinato l’antropologia, soprattutto quando la promozione di oscure perle musicali porta a leggere reazioni come questa:
Il commento incredulo di cui sopra è stato postato da un utente siriano su youtube in riferimento alla hit di Omar Souleyman formato Hebden. Come lui altri si domandano cosa possano trovarci di interessante degli ascoltatori provenienti da contesti lontanissimi da quello del musicista, confrontandosi sulla lingua in cui stia effettivamente cantando, su quale sia la vera musica araba degna di essere ascoltata e talvolta scambiandosi reciproche accuse di westernalization e jewification. Le risposte date a quella domanda retorica sono molteplici e non intendo arrampicarmi su impalcature teoriche che si possono recuperare in qualche cultural studies reader.
Il fatto è che un quesito simile ha infestato (nel senso anglofono di haunted) l’antropologia moderna: perché mai studiare la vita sessuale dei selvaggi della Melanesia nordoccidentale? Secondo la brillante definizione di Max Gluckman, questa disciplina nasce dall’investigazione di stramberie fatta da eccentrici, e pare che il fondatore della scuola di Manchester non fosse da meno.
Da quando la globalizzazione ha portato il locale all’attenzione di chiunque e quasi ogni studente di arte ha il ritorno del reale di Hal Foster nel proprio programma di studi, il fascino per le stramberie ha conquistato un numero di seguaci senza precedenti.
Penso a un insieme di suggestioni in questo senso: allo spazio considerevole che deve occupare tale attenzione nei server di Vice e DIS magazine, alla commistione tra reportage sul campo e intrattenimento in stile Mondo Cane, alla costruzione del racconto sulla “scoperta” di Souleyman come una etnomusicologia anticonformista anziché una ricerca estetica, all’equazione del ritornello martellante dei Die Antwoord che fa da titolo a questo post. Penso che tu sia freak e mi piaci molto.
Per ritornare ai Die Antwoord, anche la loro celebrazione dello stile zef è un connubio di comune e coatto, appannaggio delle classi medio-basse afrikaans, ma Watkin Tudor Jones (Ninja) e Yolandi Visser non sono sempre stati zef. Le loro performance si piazzano a metà strada tra il celebrativo e la distanza satirica. Significativo in questo senso è il loro apprezzamento per la fotografia di Roger Ballen, con cui hanno collaborato per il video di I fink u freeky e al quale si ispirano dai primi tempi. Come mostrato nel documentario dedicato al suo terzo libro, Platteland, Ballen è arrivato alla raffinata estetica tanto disturbante quanto affascinante per cui è conosciuto dopo aver documentato la vita dei sudafricani bianchi e poveri che abitavano nel bush in seguito agli sconvolgimenti avvenuti nel loro mondo a metà degli anni ’90. Il fotografo americano si è stabilito a Joannesburg negli anni settanta, cominciando a entrare in contatto con agricoltori e minatori a causa della sua attività imprenditoriale nelle estrazioni per poi dedicarsi completamente alla passione per la fotografia solo dopo il successo inatteso di Platteland. Penso che la vicinanza tra i suoi ritratti di allora e quelli di Diane Arbus sarebbe potuta essere abbastanza per togliere ogni dubbio riguardo al fatto che nei suoi scatti di documentaristico ci fosse soprattutto uno stile e che la rappresentazione desolante degli sperduti abitanti di Platteland avesse a che fare più con la ricerca estetica della condizione umana che altro. Nel behind the scenes del video di I fink you freeky, Ballen precisa riguardo ai suoi soggetti:
Da un lato con questa dichiarazione si svincola dalle accuse di sfruttamento che gli sono state rivolte in passato. In un’altra video intervista rigira nuovamente la frittata appoggiandosi alla psicologia junghiana del lato oscuro dell’ego secondo la quale qualcuno può trovare le sue immagini disturbanti perché non è in grado di fare i conti con la propria repressione (argomentazione di cui prendere nota in caso di controversie). Dall’altro lato la sua dichiarazione di normalità delle persone ritratte stride con la decisione di collaborare con Die Antwoord in uno strano paradosso: se i suoi soggetti sono come qualsiasi altro essere umano che cammina sul pianeta, perché mai associarli proprio a quella canzone? Penso che tu sia freak e mi piaci molto, inizia a sembrarmi non solo lo statement occulto della fotografia di Roger Ballen, ma un motto generazionale.
Per tornare al mio maldestro tentativo di fare di questo post una precisazione metodologica, credo che ora più che mai sia necessario recuperare quanto di buono ci può essere in un approccio antropologico, nonostante le differenze tra campi di studio vadano sempre più confondendosi. A un certo punto la tensione a riconoscere e collegare tra loro processi sociali di scala diversa, magari provando a comprenderli, mi è sembrata un buon antidoto alle nuove forme di esotismo pur senza negare il fascino per espressioni culturali insolite. All’equazione di I fink u freeky and [therefore] I like you a lot mi sono trovata spesso a contrapporre la consapevolezza amara di un classico dei Pulp (qui la trascrizione a fumetti di Hewlett e un ottimo documentario della bbc). Come cantava il buon Jarvis a una studentessa del Saint Martins College* assetata di conoscenza:
* (o del Goldsmiths o a seconda della geografia: Rhode Island School of Design, Parsons, Rietvield Academie, Konsfack…mentre in Italia ci giochiamo la triade Brera, Naba, Iuav)