Esistono molte sfumature delle nostalgie. Il caso del termine amarico “tezeta” o “tizita”, le associa alla brama e alla memoria, al suono di un genere musicale malinconico e lento, al titolo di un pezzo di Mulatu Astatke e di un documentario in post produzione sulla vita degli armeni d’Etiopia, a un nome femminile che vuol dire “non dimentica mai”.
Riservo un migliore approfondimento sul fronte musicale a quando riuscirò a mettere mano all’articolo Engendering Homeland: Migration, Diaspora and Feminism in Ethiopian Music della musicologa Ilana Webster-Kogen. Anche il versante documentaristico, a dir la verità, non si discosta dalle sonorità etiopi, dedicando molto spazio all’importante ruolo giocato dal compositore Nerses Nalbandian per il jazz locale e la generazione di musicisti resa famosa dalla serie discografica Éthiopiques, lanciata a Parigi nel 1997. Éthiopiques, come altre operazioni di questo genere, ha l’effetto collaterale di occultare nel momento stesso in cui mette in luce parte di una scena musicale ritenuta degna di nota. Meglio soffermarsi su alcune problematiche sollevate da Tezeta ancora in corso di montaggio.
Quello che rimane della piccola ma importante comunità armena di Addis Abeba ha alle spalle una storia talmente interessante da aver spinto Aramazt Kalayjian, armeno-statunitense, a decidere di raccontarla in un documentario in uscita entro il 2015, a un secolo di distanza dal genocidio del 24 aprile. Iniziative in questo senso possono continuare a tentare di smuovere il silenzio che vige ancora in Turchia in merito alle violenze e ad una componente sociale andata perduta, che ogni tanto riaffiora dalla polvere di una soffitta.
In attesa dell’uscita del film si può dare una letta veloce a uno dei pochi scritti recenti in merito, la tesi pubblicata su internet dall’etio-svedese Marcuz Haile che, oltre a fare un riassunto storico esaustivo, riporta le esperienze di tre etio-armeni intervistati ad Addis Abeba. Sebbene precedenti contatti tra le due nazioni avvenissero tramite la chiesa ortodossa, storicamente una prima comunità di mercanti e preti si era stabilita in Etiopia dal sedicesimo secolo, seguita da una seconda e più numerosa ondata di esiliati conseguente alle persecuzioni del 1915. Di quella che era la terza presenza straniera nazionale, seconda ai greci e agli italiani, rimangono solo circa 120 individui, per la maggior parte oltre i sessant’anni. La causa principale di questa diminuzione è l’emigrazione che ha interessato il paese dopo l’instaurazione del comunismo e l’espropriazione delle proprietà terriere, con l’assottigliamento della comunità armena sono aumentati i matrimoni misti e le partenze di coloro che desideravano formare una famiglia con partner dello stesso retaggio culturale. Nonostante queste dinamiche dalle interviste condotte da Haile e dagli spezzoni video pubblicati da Kalayjian sembrerebbe che gli armeni d’Etiopia siano propensi a riconoscersi nella nazionalità e nella mentalità locale più che in quella di una patria lontana e raramente visitata. Sebbene posti chiave nella società locale a capo di alcune delle più importanti attività commerciali e industriali, la loro vicenda è meno conosciuta rispetto alle altre mete in cui si sono stabiliti i loro “compatrioti” (tra i quali Charles Aznavour, Cathy Berberian, Yervant Gianikian e last but not least, Cherilyn Sarkisian).
Uno degli episodi storici esemplari è l’adozione da parte del futuro imperatore Ras Tefari Mekonnen di un gruppo musicale formato da quaranta orfani armeni incontrato durante un viaggio diplomatico a Gerusalemme. I quaranta musicisti andarono poi a far parte dell’orchestra di corte e il loro direttore, Kevork Nalbandian (zio del compositore Nerses Nalbandian), fu chiamato a comporre l’inno imperiale, reperibile online solo in una grezza versione midi dato che è stato sostituito dopo la deposizione dell’imperatore nel 1974 da parte della giunta militare marxista-leninista Derg.
Pur non esponendosi mai politicamente, gli etio-armeni erano apprezzati dalla classe nobiliare: i ritratti ufficiali della famiglia imperiale sono stati realizzati proprio da tre generazioni di Boyadjian. La maggior parte delle fotografie degli imperatori sono opera del loro studio, probabilmente compreso l’originale di un’effige comparsa nella piazza di un paese del piacentino. Alcuni scatti sono contenuti nella bellissima antologia dedicata da Revue Noire alla fotografia africana, assieme a quelli di un altro studio etiope frequentato dalle stelle del cinema.
Questo fatto dovrebbe essere meno sorprendente dato che gli armeni hanno giocato un ruolo fondamentale nella diffusione del mezzo fotografico e nella ritrattistica di studio in molti dei paesi toccati dalla dispersione di questa popolazione, una prerogativa riconducibile sia alla compartimentazione lavorativa ottomana su base religiosa sia all’affinità visiva e artigianale implicita alla forma della miniatura tradizionale armena. Basti pensare a un altro fotografo di corte, questa volta quella del sultano di Java, dove Ohannes Kurkdjian si stabilì a fine Ottocento dopo aver fatto pratica presso un altro studio armeno a Singapore.
Il caso degli etio-armeni e della loro lenta (e in gran parte inesorabile) scomparsa è una variazione importante nella comprensione di quelle migrazioni sociali e culturali che sono generalmente indicate sotto al termine “diaspora” talvolta senza una riflessione più approfondita dei diversi sviluppi e dei gradi di appartenenza che comporta. Tezeta è un termine che fa domandare quanti altri “trattini” culturali (nel senso di provenienza x – destinazione y) sono o stanno per essere dimenticati. Il rischio che si corre nel fare un documentario sui resti di una comunità che va scomparendo è quello di limitarsi a un tentativo di “salvataggio” concentrandosi nostalgicamente su quello che non c’è più anziché sul cambiamento in atto e sul suo lascito. Difficile dirlo senza aver visto il film, meglio aspettarne l’uscita.