Uhura. Indagini tra Afrofuturismo e Hauntology.
“We need images of tomorrow; and our people need them more than most. Without an image of tomorrow, one is trapped by blind history, economics, and politics beyond our control. […] The historical reason that we’ve been so impoverished in terms of future images is because, until fairly recently, as a people we were systematically forbidden any images of our past.”
Samuel R. Delany, “Starboard Wine: More Notes on the Language of Science Fiction”, New York: Dragon, 1984; Wesleyan University Press, 2012 and in “Black to the Future: Interviews with Samuel R. Delany, Greg Tate, and Tricia Rose” by Mark Dery, Duke University Press, 1994
NJIDEKA AKUNYILI CROSBY
La sostenitrice di Donald Trump che alla convention di Dallas del settembre scorso si è presentata con un vestito fatto di ritratti stampati del candidato repubblicano, forse non sapeva di essersi ispirata per la sua creazione ai Pagnes africani. Questi sgargianti tessuti, oltre ai più conosciuti motivi astratti e geometrici a elevatissimo tasso simbolico, spesso portano stampati in forma di ritratto i volti di personalità pubbliche e vengono usati per commemorazioni, eventi e per esprimere sostegno politico.
I Pagnes o Ankara, con il loro sincretismo, sono centrali nelle opere di Njideka Akunyili Crosby (1983, Enugu, Nigeria, vive e lavora a Los Angeles). Conosciuti anche come Duch Wax, sono considerati come un autentico prodotto africano. Ma sarebbe meglio dire che i Pagnes sono un autentico prodotto coloniale. Portati in Africa occidentale per la prima volta dall’Indonesia da soldati della regione dell’attuale Ghana, arruolati dagli olandesi per combattere nei territori dell’isola di Java, e poi introdotti commercialmente in Africa, sempre dagli olandesi (la Vlisco è leader nel settore da oltre 150 anni), hanno da subito avuto un enorme successo nei mercati dei paesi del golfo di Guinea. I Pagnes non sono soltanto dei vivaci tessuti stampati, sono un potente oggetto identitario, uno strumento di comunicazione (Marta Collini mi ha ricordato che “i batik erano usati anche a Java come mezzo di comunicazione, le famiglie nobili avevano sempre quelli con il motivo a machete”), veicolo di messaggi e simbologie di relazione tra i sessi, strumento di emancipazione per le donne che li commerciano, come le mitiche Nana Benz (perché proprietarie di costose e potenti Mercedes Benz) del Togo. Il documentario del 2012 Nana Benz é assolutamente da guardare.
“All’african print, da tempo sedimentato nel continente, viene dato un grande valore e le donne lo considerano un’espressione autentica dell’identità femminile urbana africana, nonostante molti dei pagnes in circolazione nei mercati dell’Africa occidentale e centrale siano di provenienza europea e asiatica. […] L’intera storia dell’african print ci pone di fronte ad un processo di costruzione dell’autenticità per appropriazione e a una capacità d’invenzione culturale che sfrutta in modo esemplare i meccanismi dell’ibridazione e del collage.”1
Questi stessi meccanismi d’ibridazione e collage sono in atto nelle rappresentazioni d’interni domestici e vita familiare di Njideka Akunyili Crosby, in cui si stratificano narrazioni private e pubbliche, storie di migrazioni e flussi tra le sponde dell’Oceano Atlantico, le questioni legate al middle-passage, quelle identitarie e di rappresentazione, sia politiche che sociali. Le foto ricordo e le immagini di varia provenienza che saturano questi lavori di grande formato, accostate e combinate, sono il contrappunto alle storie della Nigeria contemporanea messe in scena dall’artista (Fifty diretto da Biyi Bandele e distribuito da poche settimane anche su Netflix è un ottimo film per farsi un’idea di questa Nigeria). “Spesso le persone hanno un unico punto di vista sulla Nigeria e sull’Africa. Ma i problemi di travisamento avvengono quando qualcun altro racconta la tua storia per te” spiega Njideka Akunyili in un’intervista. “Il mio lavoro non è sull’essere una Nigeriana che vive in America. Ma più su uno spazio davvero liminale. Uno spazio piuttosto difficile da comprendere. Quando guardi il lavoro c’è qualcosa di stridente. Vorrei creare la sensazione per cui qualcosa è stato sottratto, o perso. Come voler mettere le persone in questa strana terra di nessuno. Cerco un po’ di fare questo nelle mie costruzioni”.
Njideka Akunyili Crosby é nata in Nigeria nel 1983, nel 1999 si é trasferita negli Stati Uniti per studiare medicina. Nel 2014 ha vinto lo Smithsonian American Art Museum’s James Dicke Contemporary Art Prize. Ha recentemente esposto tra gli altri al New Museum, allo Studio Museum in Harlem e al Bronx Museum di New York, a Los Angeles al Hammer Museum e da Art + Practice e al Museum of New Art Detroit, in diverse gallerie negli Stati Uniti e in Europa. La sua ultima personale “I Refuse to be Invisible” ha da poco aperto all’Norton Museum of Art di Palm Beach, in Florida.