RAPHAËL BARONTINI

Imagination
Creates the situation
And, then, the situation
Creates the imagination
It may, of course, be
The other way around;
Columbus was discovered
By what he found.
(James Baldwin)

Processus inarrêtable, qui mêle la matière du monde, qui conjoint et change les cultures des humanités d’aujourd’hui. Ce que la Relation nous donne à imaginer, la créolisation nous l’a donné à vivre.
(Édouard Glissant)

Raphaël Barontini, Installazione ‘Saccades’ - Exposition Saxifraga Umbrosa II, 2014

Raphaël Barontini, Installazione ‘Saccades’ – Exposition Saxifraga Umbrosa II, 2014

>> pour les amis francophones la version en francais est en bas de cette page

 

Nel dicembre 2014 il Ministero della Cultura francese ha dichiarato tesoro nazionale gli archivi di Édouard Glissant. Alcuni mesi dopo, in occasione della presentazione di parte di questi fondi presso la Chancellerie, la Ministra dell’Oltremare George Pau-Langevin nel suo discorso riassume così il senso dell’opera di Glissant: “La pensée d’Édouard Glissant est une pensée moderne, une pensée de la connectivité, une pensée de la relation et de l’hétérogénéité. La pensée du Tout Monde qui exige de remettre en question les hiérarchies et les rapports de forces, les centres et les périphéries, et de rejeter les certitudes, les rigidités, les égoïsmes et les racismes.” (“Il pensiero di Édouard Glissant è un pensiero moderno, un pensiero della connettività, un pensiero della relazione e dell’eterogeneità. Il pensiero del Tout Monde che esige la rimessa in discussione delle gerarchie dei rapporti di forza, i centri e le periferie e, di rigettare le certezze, le rigidità, gli egoismi e i razzismi”).

Sono questi gli stessi valori che Raphaël Barontini (1984, Saint-Denis, FR. Vive e lavora a Saint-Denis) esalta in un’esuberante ricerca pittorica e plastica. La prima volta che ho visto una delle sue opere è stato un paio di anni fa in una collettiva alla Générale en Manufacture a Sèvres, e mi ha subito colpita per la vivacità visiva e la capacità di combinare elementi disparati come la visualità della ritrattistica ufficiale e l’estetica delle Black Panthers, i temi della cultura anti-coloniale e quelli delle feste popolari. Gli ho fatto alcune domande per UHURA:

Chi sono i personaggi dei tuoi quadri? Quali le tue fonti iconografiche?

Le figure presenti nei miei ritratti provengono dai musei d’arte primitiva, dalle gallerie del Louvre o del Metropolitan Museum, dai musei d’arte popolare, ma anche da fonti pop contemporanee, dalla strada e dal contesto urbano a me vicino. Da un Apollo antico a una Venere Nera della Nigeria maneggio senza troppe cerimonie immagini provenienti da culture e epoche molto eterogenee.
I miei ritratti sono composti di immagini ritagliate e poi riassemblate a formare delle figure ibride. Questi paralleli formali, queste associazioni di immagini, mi permettono di avere un’influenza sulla nostra storia comune, universale e soprattutto di collocarmi nella “reinvenzione”.

Raphaël Barontini, Serie «Colosse», L’Arlequin, 2011

Raphaël Barontini, Serie «Colosse», L’Arlequin, 2011

Raphael Barontini, Serie «Colosse», Sun Ra, 2012

Raphaël Barontini, Serie «Colosse», Sun Ra, 2012

Realizzi ritratti sia su tela che su stendardi. Assegni un valore simbolico diverso ai tuoi ritratti a seconda del loro supporto?

In effetti il mio lavoro di pittura si è frazionato nel tempo in serie. Queste diverse famiglie si distinguono per una tematica, un formato o la scelta di un supporto. Innanzitutto non ho mai abbandonato la forma classica della pittura da cavalletto perché é interessante per me tornarci nel corso della creazione. Confrontarsi con il quadro rettangolare è sempre una sfida. Questo mi permette di posizionarmi in un rapporto di filiazione legato al medium, ma anche di giocare in relazione a questi codici storici, in particolare, appunto, quello del ritratto (ritratto in piedi, busto, a cavallo…).
Facevi riferimento alla serie delle pitture-stendardo che hanno un ruolo particolare e di cerniera nel mio lavoro. Per questa serie chiamata delle Célébrations desideravo far transitare dei ritratti dipinti su un supporto dalla forma arrotondata e con le frange, come quelli delle processioni o del carnevale. A partire da questa serie, cominciata nel 2009, il mio lavoro pittorico si è aperto all’installazione e simbolicamente questa transizione ha un senso. Mi interessava suggerire nell’immaginario dello spettatore che questi ritratti avrebbero potuto attraversare la porta dello spazio espositivo per avere un’esistenza nello spazio urbano. La forza vitale collettiva che scaturisce dalle feste popolari, dal folklore, o dal carnevale ha sempre cullato la mia creazione e ne è un motore: immaginare delle pitture-stendardo, delle bandiere, delle banderuole che partecipino di questa volontà di essere in un contesto vivente, dentro tracce simboliche di vita in società, in un cosmico comune.

Raphaël Barontini, Serie «Célébrations», Sans Titre, 2012

Raphaël Barontini, Serie «Célébrations», Sans Titre, 2012

Raphaël Barontini, Serie «Célébrations», Black Venus, 2012

Raphaël Barontini, Serie «Célébrations», Black Venus, 2012

In una tua intervista del 2013 parli di “ritratti del XVI e XVII secolo, oggetti sacri, segni grafici provenienti dai graffiti e oggetti africani, antillani o latino-americani” che popolano le tue opere, qual è il tuo sguardo su di loro?

A dire il vero tutte queste manifestazioni visuali che evochi sono la materia prima del mio lavoro pittorico. Mi nutro di rappresentazioni del nostro passato, della storia del ritratto e della pittura così come di oggetti sacri, folcloristici o carnevaleschi. La mia scelta si rivolge prima di tutto a oggetti intriganti, una bella pittura, un’immagine forte o che mi interroga.
In un secondo tempo, la scelta dell’immagine si opera sulla base della sua qualità informativa, simbolica o estetica. Quale portata poetica può veicolare?
Il mio lavoro plastico è connesso a una storia comune che lega l’Occidente e l’Africa, le Americhe e i Caraibi attorno alle questioni dello schiavismo, della colonizzazione e delle diaspore. In un presente urbano contemporaneo come interrogare quest’eredità, a volte pesante, cercando di reinventarsi, di lavorare le forme di rappresentazione e d’immaginare delle figure ibride creolizzate.

“La creolizzazione è la messa in contatto di più culture o, almeno, di più elementi di culture distinte, in un certo posto della Terra, avente come risultato un dato nuovo totalmente imprevedibile rispetto alla somma o alla semplice sintesi degli elementi.  Si può prevedere un meticciamento, ma non una creolizzazione.” Vorrei uno tuo commento a questo brano di Glissant preso da Le traité du Tout Monde? (*il saggio, inedito in Italia, è stato pubblicato in Francia da Gallimard nel 1997)

Quello che è meraviglioso con il concetto di creolizzazione è che va di pari passo con quello di creazione. L’incertezza è onnipresente nell’atto di creare e non importa in quale medium. Questa dimensione di sperimentazione, di sorpresa, di assenza di certezze, che è la stessa in Glissant, è eccitante. Questo pensiero della creolizzazione mi porta a immaginare i miei ritratti come dei pezzi di un altro tempo, tra passato sublimato e futuro da progettare.

Le tue installazioni, come accennato prima, possiedono in potenza un forte grado di performatività e un’estetica molto forte del dance-floor, delle parate e del carnevale. Quale ruolo hanno nella tua ricerca i codici, appunto, del dance-floor, delle parate e del carnevale?

Già molto giovane ero attirato da tutto quello che brillava e che era colorato, tutto ciò che era dell’ordine del costume e dell’ornamento. Questo carattere barocco non mi ha mai lasciato, e anzi è uno dei motori del mio lavoro pittorico. L’uso di paillettes, frange, tessuti iridati e vinile, di colori flou proviene in effetti da quell’universo decorativo abbondante che sono le sfilate e parate popolari e i carnevali. È il mio DNA d’artista, e viene dall’infanzia e dal mio vissuto nei Caraibi. Utilizzo tutti questi elementi plastici da una parte per una questione di efficacia visuale e dall’altra per un puro piacere formale!

Tre libri da leggere?

The fire next time di James Baldwin, La tragédie du roi Christophe d’Aimé Césaire e Le traité du Tout Monde d’Édouard Glissant.

Tre album o tracce sonore/musicali?

Welcolme to the Afterfuture di Mike Ladd

The ArchAndroid di Janelle Monáe

The Low End Theory di A Tribe Called Quest

www.raphaelbarontini.com

 

 

>> Version en français:

En décembre 2014, le Ministère de la Culture a déclaré Trésor national les archives d’Édouard Glissant. Quelques mois après, à l’occasion de la présentation de ces fonds à la Chancellerie, la Ministre des Outre-Mer dans son discours a ainsi résumé le sens de l’œuvre de Glissant: “La pensée d’Édouard Glissant est une pensée moderne, une pensée de la connectivité, une pensée de la relation et de l’hétérogénéité. La pensée du Tout Monde qui exige de remettre en question les hiérarchies et les rapports de forces, les centres et les périphéries, et de rejeter les certitudes, les rigidités, les égoïsmes et les racismes.”

Ces sont les mêmes valeurs exaltés par Raphaël Barontini (1984, Saint-Denis, FR. Vit et travaille à Saint-Denis) dans son exubérante recherche picturale et plastique. J’ai pour la première fois vu son oeuvre , il y a deux ans, lors d’une exposition collective à La Générale en Manufacture à Sèvres. J’ai été toute de suite attirée par la vivacité visuelle de son travail et intéressée par sa capacité à combiner des éléments hétérogènes issus aussi bien de la peinture de portrait officielle que par l’esthétique des Black Panthers, des arts populaires. Voici un entretien avec l’artiste pour aprofondir cette incursion dans son travail.

Qui sont les personnages de tes peintures ? Et quelles sont tes sources iconographiques ?

Les figures présentes dans mes portraits viennent de musées d’art premiers, de galeries du Louvre ou du Métropolitain Museum, de musée d’arts populaires mais également de sources POP contemporaines, en somme, de la rue et de mon environnement urbain immédiat. D’un Apollon antique à une vénus noire du Nigeria, je manie sans ménagement des images issues de cultures et d’époques très hétérogènes.
Mes portraits sont composés d’images découpées puis réassemblées formant des figures hybridées. Ces rapprochements formels, ces associations d’images me permettent d’avoir une emprise sur notre histoire commune, universelle, et surtout d’être dans de la « réinvention ». Au fil de mon travail, j’ai réalisé une galerie de portraits sous différentes formes qui deviennent des traces visuelles d’un  monde imaginaire en gestation, d’un ailleurs poétisé.


Tu réalises des portraits sur toiles aussi bien que sur bannières.  Assignes-tu une valeur symbolique différente à tes portraits par rapport à leur support ?

Effectivement, mon travail pictural s’est fractionné par série avec le temps. Ces différentes familles se distinguent par une thématique, un format ou le choix d’un support. Tout d’abord, je n’ai jamais abandonné la forme classique de la peinture sur châssis car il est intéressant pour moi au fil de ma création d’y revenir. Ce confronter au cadre rectangulaire est toujours un challenge. Cela me permet d’être dans une posture de filiation lié au medium, mais aussi de jeux par rapport à ces codes historiques notamment ceux du portrait. (portrait en pied, en buste, à cheval…)
Tu fais également échos à la série des peintures-bannières, qui ont une place particulière et un rôle charnière dans mon travail. Par cette série dite des « Célébrations », je souhaitais faire transiter des portraits peints sur un support reprenant la forme arrondie et frangée d’une bannière de procession ou de carnaval. A partir de cette série commencée en 2009, mon travail pictural s’est ouvert à l’installation et symboliquement cette transition a un sens. Suggérer dans l’imaginaire du spectateur que ces portraits pouvaient un temps passer la porte de l’espace d’exposition pour avoir une existence dans l’environnement urbain m’intéressait. La force vitale collective jaillissant des fêtes populaires, du folklore, ou du carnaval a toujours bercé ma création et est un moteur. Imaginer des peintures bannières, des drapeaux , des banderoles participent de cette volonté d’être dans du vivant, dans des traces symboliques de vie en société, dans du cosmique commun.

(selon une de tes interviews de 2013) Quel type de regard portes-tu sur «  les portraits du 16ème ou 17ème siècle, les  objets sacrés, les signes graphiques issus du graffiti et les objets africains, antillais ou latino-américains » qui peuplent tes œuvres ?

A vrai dire toutes ces manifestations visuelles que tu évoques sont la matière brute de mon travail pictural.
Je me nourris de représentations de notre passé, de l’histoire du portrait et de la peinture aussi bien que d’objets sacrés, folkloriques ou carnavalesques.
Mon choix se porte avant tout sur un objet intriguant, une belle peinture, une image forte ou qui questionne. Dans un second temps, le choix d’image s’opère par rapport à la qualité informative, symbolique ou esthétique de celle-ci. Quelle portée poétique peut-elle apporter ?
Mon travail plastique est connecté à une histoire commune qui lie l’occident à l’Afrique, les Amériques et les caraïbes sur les questions de l’esclavage, de la colonisation et des diasporas. Dans un présent urbain contemporain comment questionner cet héritage parfois lourd en tentant de se réinventer, de travailler les formes de représentations, d’imaginer des figures hybrides créolisées.

« La créolisation est la mise en contact de plusieurs cultures ou au moins de plusieurs éléments de cultures distinctes, dans un endroit du monde, avec pour résultante une donnée nouvelle, totalement imprévisible par rapport à la somme ou à la simple synthèse de ces éléments. On prévoirait ce que donnera un métissage, mais non pas une créolisation. » Je souhaite avoir ton commentaire à cette phrase de Glissant prise par Le traité du Tout Monde ?

Ce qui est merveilleux avec le concept de créolisation c’est qu’elle va de paire avec celle de toute création. L’incertitude est omniprésente dans l’acte de créer, et ce dans n’importe quel medium. Cette dimension d’expérimentation, de surprise, d’absence de certitudes est la même chez Glissant, et c’est ce qui est excitant. Cette pensée de la créolisation m’amène à imaginer mes portraits comme des pièces d’un autre temps, entre un présent sublimé et un futur à projeter.

Tes installations possèdent une puissance, un fort degré de performativité et une forte esthétique du dance floor, des parades et du carnaval. Quel rôle ont dans ta recherche plastique ces codes issu du dance floor, des parades et du carnaval ?

Déjà très jeune, j’étais très attiré par tout ce qui brillait et qui était coloré, tout ce qui était de l’ordre du costume, de l’ornementation. Ce caractère baroque ne m’a jamais quitté, c’est même un des moteurs de mon travail pictural. L’utilisation des paillettes, des franges, des tissus irisés et vinyles, des couleurs fluorescentes proviennent effectivement de cet univers décoratif foisonnant que sont les parades populaires et carnavals. C’est mon ADN d’artiste, cela vient de l’enfance et de mon vécu notamment dans les caraïbes. Si j’utilise tous ces éléments plastiques c’est d’une part dans un souci d’efficacité visuel et c’est d’autre part dans un pur plaisir formel !

Trois livres à lire ?

The fire next time de James Baldwin; La tragédie du roi Christophe d’Aimé Césaire; Le traité du Tout Monde d’Edouard Glissant

Trois morceaux ou albums à écouter ?

Welcolme to the afterfuture de Mike Ladd; The Archandroid de Janelle Monae; The low end theory de A Tribe Called Quest