Qualche mese fa un video girato da alcuni ragazzi musulmani statunitensi che implicava la coesistenza di religione e ultime mode, oltre a numerosi apprezzamenti ha suscitato polemiche su vari fronti tra i quali l’effetto donna-oggetto e la ricerca di una normalizzazione lontana dagli stereotipi, oltre alle osservazioni paternalistiche che puntualmente accompagnano rappresentazioni di fanciulle in hijab. Se alcuni hanno colto l’occasione per una riflessione approfondita sulle questioni interculturali sollevate da un video amatoriale divenuto virale, molte critiche sono invece dovute all’errore comune di prendere una parte per il tutto. I produttori devono aver sottovalutato a loro volta l’effetto boomerang della rappresentazione di protagonisti imprecisati calata in un contesto indefinito, quindi generalizzato. Tranne per quanto riguarda le schermiste della squadra olimpica, e la loro veste connotata su cui sono perfino posti i nomi, le altre ragazze indossano quello che sembra l’ultimo campionario di una multinazionale svedese dell’abbigliamento (che a sua volta ha esteso la sua produzione a capi che rispettino i precetti delle potenziali clienti ben prima della satira feroce di Peter De Wit). Il fatto che siano musulmane si evince soltanto dal fatto che tutte indossano l’hijab e dall’ashtag associato al video #Mipsterz (neologismo di Muslim e di quella corrente modaiola imperante che eviterò di menzionare), a parte ciò non fanno nulla di ascrivibile al piano della religione: gironzolano e scherzano sullo sfondo urbano nordamericano con il sottofondo di Somewhere in America di Jay-Z. Anche la scelta della colonna sonora può trasformare una celebrazione della spensieratezza e dell’emancipazione dal pregiudizio in un tentativo poco riuscito.
Intanto, in un paese a maggioranza islamica non mediorientale:
Al di là degli intenti degli autori di #Mipsterz, l’enfasi è posta sul piano religioso: sono accumunate dal fatto di essere della stessa fede e nazionalità anziché da eventuali origini più o meno lontane nella regione MENA (Middle East and North Africa). Alcune di quelle ragazze sono third country kids, come ad esempio Layla Shaikley che è nata da genitori iracheni. La definizione third country kids è stata coniata per indicare i figli di militari che avevano passato gran parte della loro vita in un paese diverso da quello dei genitori, eppure ora include anche i figli e i nipoti di chi è fuggito da quegli stessi stati occupati dall’esercito nordamericano. A parte la fede islamica un tratto comune dei third country kids con genitori provenienti da paesi a maggioranza musulmana sembrerebbe il bisogno di sfatare i pregiudizi sulla cultura araba e il cosiddetto scontro di civiltà che pervadeva i media durante la loro adolescenza. Una simile spinta a mantenere le proprie radici e allo stesso tempo sfatare i preconcetti della gente è raccontata in un’intervista dal creatore di Sublime Frequencies e primo sostenitore del successo internazionale di Omar Souleyman. Mark Gergis, di padre iracheno, ha dovuto fare i conti con la guerra precedente a una generazione di distanza:
It was the first Gulf War (the US and allied forces war against Iraq back in 1990) that really began to politicize me and force me to realize what sort of country I was living in, and also how it was to be of Iraqi or Arabic heritage in the United States – which was pretty shit in suburban America, unless you were an assimilated proto-American. I began going back to Arabic music with fresh ears. Most of my Iraqi family were living in Detroit, Michigan – and I’d often visit the many Iraqi music shops there, looking for good sounds. I took a lot of road trips across the United States in my early-twenties, and took special interest in discovering which immigrant communities had settled where, and what music they were making.
Il problema sollevato involontariamente dai #Mipsterz ricorda un dilemma evidenziato da un saggio di Jessica Winegar intitolato The Humanity Game: Art, Islam, and the War on Terror. L’autrice prende in oggetto le mostre organizzate in seguito all’attentato alle torri gemelle e alla relativa campagna mediatica. Da quel periodo in poi, i musei hanno provato a sfatare i pregiudizi esistenti sulle varie componenti sociali arabe presenti negli Stati Uniti. Per raggiungere tale obiettivo le esposizioni hanno insistito soprattutto su tre filoni: arte islamica antica, arte Sufi e arte contemporanea prevalentemente prodotta da donne islamiche. Per contrastare le rappresentazioni disumanizzanti diffuse dai media, una certa tipologia di arte era portata come valore estetico universale e dimostrazione dell'”umanità” delle persone originarie dalla regione MENA. Nonostante il nobile intento di alleviare il diffuso clima di xenofobia, queste reazioni istituzionali continuavano ad alimentare il pregiudizio rappresentando “un altro lato” del Medio Oriente. Cercare di sfatare stereotipi porterebbe inevitabilmente a prediligere un modello come virtuoso e normale, polarizzando il resto:
The secularist impulse in the desire to find art that shows the historical artistic achievements and modernity of Middle Eastern Muslims, along with the encouragement of certain kinds of artmaking among them, actually ends up reproducing a religious framework such that their work is often interpreted with reference to Islam, whether or not there even exists a religious connection. In the process, the association of Islam with the Middle East is cemented, despite the range of religious faiths and attachments in the region, and despite the existence of millions of Muslims who are not Middle Eastern. Thus, the claims about art, humanity, and religion governing these arts events actually operate in the same discursive universe of the conflict (which often frames problems in religious terms) and thus may act to reproduce it. When art is used to show Middle Easterners’ humanity or to advance certain views of Islam, a very particular and politicized “bridge of understanding” is created that obfuscates, and perhaps refuses, other understandings which might be less comfortable to America’s secular cultural elites.
Insomma, per ritornare alle hijabis, fare un video per dimostrare che essere musulmana è cool, implica a sua volta il contrario di questa affermazione, sottintendendo che non ci sono precedenti di donne islamiche alla moda. Un altro motivo per cui il video Somewhere in America è stato catalizzatore di una gamma di reazioni differenti. Che fare dunque? Arrendersi al pregiudizio o all’invisibilità? Winegar non suggerisce una via d’uscita definendolo un paradosso alla Catch 22. Da un punto di vista di mode musicali si potrebbe dire che proprio le espressioni più ambigue possono spostare il discorso su un altro livello, e in questo senso penso più che altro al lavoro di Fatima Al-Qadiri (intervistata anche qui) e della rivista Bidoun.
Quando si tratta del topos ‘giovane donna musulmana’ è facile buttarsi in osservazioni non sostenute da una qualche base. Per fare un passo indietro e capire come si sia formata la concezione dell’immagine della donna nei paesi mediorientali e come le polemiche sui #Mipsterz coinvolgano la rappresentazione delle nonne e delle bisnonne di quelle ragazze in hijab che ridono e scherzano è utile rimandare a un testo fondamentale come Images of Women di Sarah Graham-Brown. Ripercorrendo tramite preziose fonti archivistiche la ritrattistica fotografica delle donne nel Medio Oriente dal 1860 al 1950, Graham-Brown affronta le variabili che hanno contribuito a creare un certo tipo di aspettative ancora attuali ogni volta che emerge questo argomento, per questo non si tratta solo di una storia di genere ma anche di un resoconto degli eventi che hanno caratterizzato l’assetto politico e sociale della regione da un punto di vista scarsamente trattato dalla storiografia classica. Le parole conclusive della postfazione sono ancora valide per il gruppo di hijabistas, anche se ora il resto di quella storia lo stanno già raccontando loro:
Despite these apparent innovations in the ways women are perceived, it is scarcely less difficult to escape the connotations of these images and the power structure which lie behind them than it was in the past. Women also continue to internalize these definitions of themselves, sometimes without even being conscious of it. For those women who are aware of these forms of power and who are fighting to control their own lives, rejecting the images imposed upon them by others, society still does not offer any easy options.