Un loro commento in un vecchio post ci ha portati a Mescla! ed a un tumblr che parlava di ritmi per genti libere, DJ set inclusivi e Feste Danzanti. Li ho intervistati per saperne di più.

Cos’è Mescla! e cosa intendete con ‘ritmi per genti libere’? In un certo senso mi ricorda la massima di Emma Goldman ‘if I can’t dance I don’t want to be part of your revolution’.

Mescla! È nata alcuni anni fa dalla voglia di due amici di diffondere le musiche ritmiche su cui si appassionavano da un po’, per celebrare il piacere della danza e della scoperta di musiche appartenenti a tempi e luoghi diversi, popolari ma comunque ricercate. Il nome dice che è un mescolare appunto culture e stili. Per un po’ abbiamo tenuto un party in un piccolo club nel centro di Bologna, lo Spazio in due. E ogni tanto in altri posti. Veniva bene, ma dopo un po’ ci siamo resi conto che in quelle occasioni l’offerta (basata soprattutto sull’alcool) e gli orari limitavano le tipologie di persone che potevano venire: la mescolanza era limitata, e così l’esperienza.
In quel periodo abbiamo letto una frase di Rebecca Solnit che fa una sintesi perfetta (o pone un minimo comun denominatore) dell’importanza della musica nei processi sociali, dalla New Orleans dell’epoca schiavista alle primavere arabe: ‘Congo Square sets the world free’. Per questo quando ci chiedono di spiegare che generi mettiamo, diciamo che è ‘musica per genti libere’, perché è vogliamo che le feste siano spazi in cui creare una comunità di persone che siano libere di esprimersi con la danza. É molto ambizioso, ma è quello che ci muove.

Era questa possibilità di liberazione che ci muoveva a musiche come il jazz, la no-wave, l’hip-hop, le musiche caraibiche, l’afrobeat, la disco, la ‘global bass’, cose più legate al folklore e a tutte le musiche in cui ritrovavamo estasi, reiterazione, gioia e senso di comunità.         

Su questa idea abbiamo iniziato a sviluppare un’idea di festa inclusiva/popolare, che per tautologia abbiamo chiamato Festa Danzante: un’occasione che fosse adatta a quante più persone possibile, per orari, musiche e offerta (non solo alcool, molto cibo, etc). Diciamo che abbiamo fatto delle prove, in centri sociali, locali estivi e altri spazi, ma senza mai riuscire a curare o a trovare tutti questi aspetti assieme.

Con Snark avete costruito un dj set inclusivo, cos’è e come si fa? Mi interessa molto il tema dell’accessibilità e come l’avete adattato alle richiese dei presenti.

La festa è nata da un insieme di incontri e relazioni: abbiamo avuto la fortuna di conoscere i ragazzi di Baum/Corte Tre, un progetto che si basa su inclusione, arti urbane e pratiche di comunità (da cui è nato bauhmaus), mentre stavano organizzando un festival ‘inclusivo’ in un quartiere di Bologna (la Bolognina) coinvolgendo anche gli ospiti del Centro di richiedenti asilo Zaccarelli con un intervento di street art e una festa finale.

Gli abbiamo spiegato l’idea di Festa Danzante e gli abbiamo proposto di fare un dj-set durante la festa, costruito anche con le canzoni ‘preferite’ dagli ospiti, che provengono principalmente dall’Africa occidentale e dal Pakistan. Per questo abbiamo coinvolto anche Snark (un’associazione di cui fa parte uno di noi) che usa strumenti di co-design e co-progettazione in ambito civico/sociale.

Abbiamo adattato alcuni strumenti e metodi (ne parliamo qui) e insieme agli operatori e agli insegnanti di italiano (nelle cui lezioni siamo stati ospitati) abbiamo fatto un paio di incontri/workshop chiedendo ai ragazzi del centro di compilare delle schede cartacee, in cui oltre a indicare le canzoni potessero anche esprimersi sulla propria idea di festa e di danza.
Non è stato semplice, in parte per difficoltà con la lingua e con l’alfabeto italiano: in una metà dei casi (in tutto abbiamo raccolto circa 40 schede) abbiamo usato Youtube e Shazaam per individuare canzoni e musicisti. Avremmo dovuto dedicare ancora più tempo a questa fase per confrontarci meglio su aspettative, esperienze, abitudini e contesti di ascolto.
Per selezionare le canzoni abbiamo cercato soprattutto sonorità più attuali che rendessero la varietà di culture presenti nel Centro, ma con l’idea di mescolarle a suoni caraibici, r’n’b, mediterranei etc.
Dalle schede ci siamo resi conto (ed è stato bellissimo) che in Pakistan ascoltano molti musicisti indiani, alla faccia della geopolitica che appiatisce tutto su conflitti e confini (la stessa cosa che ti capita quando in Serbia trovi centinaia di persone che cantano a memoria i pezzi di un cantante croato). I ragazzi africani invece hanno chiesto soprattutto coupè decalé (Dj Arafat, Timaya e Magic System in particolare), suoni ‘afrobeats’ e reggae.

Per quello che avete potuto vedere dalla console, cosa è successo in pista?

Quel giorno sono arrivate persone da tutta la città, soprattutto dal quartiere (Bolognina) e dai centri e dalle strutture di accoglienza che si trovano accanto alla Zaccarelli, che ospitano soprattutto uomini e famiglie. Abbiamo iniziato con musiche poco incalzanti durante la cena, ma appena finita ci hanno chiesto di aumentare il ritmo, e la risposta era bellissima, c’era gente in tutte le parti della stanza (anche dietro la consolle) e soprattutto quando suonavamo i pezzi richiesti la reazione era di gioia pura, fatta di braccia alzate, di gente che ballava tenendosi per mano. Si vedeva che era prezioso stare lì insieme a ballare, con entusiasmo ma con rispetto, possiamo dire con un’euforia non alcoolica?
Eravamo pronti a “reagire alla pista” ma a un certo punto della serata siamo stati letteralmente assaliti dalle richieste, essendo in due ci siamo divisi i compiti (uno parlava e l’altro mixava) e abbiamo ragionato sul da farsi con gli operatori e i mediatori.
Abbiamo cercato di mescolare gli stili il più possibile ma questo non ha soddisfatto tutti: da un certo punto in poi in molti hanno iniziato a chiedere di mettere più musica del proprio paese o di uno stile preciso, e quando spiegavamo che era una selezione, un mix di generi, l’espressione era tra lo scocciato e il triste. Era la festa del centro e non contava solo la nostra idea di djset.
Per semplificare e per gestire meglio le richieste abbiamo collegato direttamente i telefoni all’impianto, lasciando a alcuni ragazzi la selezione: è stato più caotico ma più coerente con la situazione. Dopo un po’ siamo riusciti a raccontarci/e com’era andata: c‘era un bisogno di rappresentazione molto forte che era più importante dell’idea di djset da cui partivamo.

In questo flusso i punti del Rise Center sono arrivati mentre cercavamo di dare ordine alle nostre emozioni post-festa: ci hanno permesso di capire che siamo arrivati al centro senza smontare formati (il djset) e preconcetti (questa idea di festa per creare comunità che è tale per via di un mix musicale ‘interculturale’) e non lavorando abbastanza sui bisogni individuali e sul processo che aveva portato alla festa, nonostante i due incontri.
È una riflessione che ci ha permesso di focalizzare più chiaramente le ragioni che ci muovono e il modo in cui poterle mettere in pratica.

Oltre alla festa danzante che si è svolta allo Zaccarelli, riuscite a coinvolgere un pubblico legato ai paesi dei brani che suonate? Come hanno influito il workshop e la festa sul vostro modo di lavorare?

Di solito il pubblico dei posti dove mettiamo i dischi è molto omogeneo e per lo più europeo, è per questo che siamo arrivati fino alla Zaccarelli e vogliamo continuare a cercare di incontrare e coltivare questa diversità, che non è solo culturale.

La festa ci ha anche fatto riflettere su aspetti tecnologici e di approccio: adoriamo usare i vinili ma molte cose contemporanee le troviamo solo in digitale e in determinati contesti arrivare con i vinili non avrebbe molto senso. Diciamo che stiamo ragionando, a braccio, sulla relazione tra mezzi e contesti. Vogliamo trovare altre occasioni per sperimentare con l’idea di inclusività e di festa che abbiamo. Siamo intrigati e curiosi di vedere cosa potrà saltarne fuori…

Che clima si respira a Bologna in periodo di sgomberi?

Lo stiamo facendo qui perchè è qui che stanno succedendo delle cose che sono forme di innovazione sia dell’attivismo che delle politiche, oltre alla stretta dell’ordine pubblico. Al di là dei posizionamenti e delle retoriche, cerchiamo una pratica inclusiva.

Poi oggi ci è comparsa di fronte Party for your right to fight dei Public Enemy, che significa molto per noi.